PRINCIPI DI BASE FOTOGRAFICA APPLICATI AL CINEMA

di M. Di Cintio e F. Mosca


Cosa vuol dire "filmare" ossia, in ultima analisi, "fare una foto"?
Per rispondere con un discreto compromesso fra esaustività e "agilità" abbiamo approntato questo mini-trattato che copre, nell'ordine, i seguenti argomenti:

1. Introduzione
2. Ma da dove viene il numero che designa un certo diaframma?
3. La sensibilità della pellicola: valori e scale
4. Latitudine di posa e trattamenti di sviluppo particolari
5. In che modo la scelta della coppia T/D al posto di un'altra può essere importante?
6. Il colore e la temperatura cromatica
7. La questione del filtro di conversione incorporato
8. Il vano caricatore
9. Mirino e sistema di traguardazione (attenzione agli esposimetri esterni!)
10. Alcune informazioni sui filtri
11. Un po' di sigle e definizioni (nel Super 8 e non solo)


1. Introduzione
Molti anni fa lessi da qualche parte che fare una foto è un po' come riempire di acqua una bottiglia, stando al buio, senza farla tracimare e senza che resti piena in modo parziale. Per farlo, occorre, in mancanza di un controllo visivo in tempo reale, una certa esperienza, ma sostanzialmente sta a noi decidere se tenere aperto il rubinetto dell'acqua per un certo tempo e con una certa portata, oppure se tenerlo aperto per un tempo più breve ma con una portata maggiore.
Applicati alla fotografia, la portata dell'acqua, ossia quanto apriamo il rubinetto, corrisponde al valore di diaframma impostato sull'obiettivo; mentre il tempo di apertura del rubinetto corrisponde al tempo di otturazione, ossia per quanto tempo la pellicola resta esposta a quella determinata quantità di luce che attraversa il diaframma. Tutto ciò allo scopo di "riempire" l'emulsione fotosensibile, vale a dire fare apparire l'immagine con le stesse proporzioni di contrasto e luminosità che percepiamo con i nostri occhi.
L'immagine che viene impressa sulla pellicola, o meglio sull'emulsione fotosensibile stesa su un supporto che risulterà trasparente alla luce una volta sviluppata la foto, non è in realtà la stessa che percepiamo noi con gli occhi, ma una sua immagine dove le zone chiare sono sostituite dalle zone scure e viceversa. Per ora, e per semplicità, ci focalizzeremo sulle pellicole in bianco e nero, dove il negativo del bianco è il nero e viceversa, procedendo così per tutte le tonalità di grigio.
"Riempire" l'emulsione fotosensibile (impressionare la pellicola), quindi, non sarà altro che provocare il maggior annerimento possibile in corrispondenza delle parti più chiare dell'inquadratura, senza, però, che le parti meno chiare si anneriscano troppo; questo perché ogni emulsione ha una certa "inerzia" a farsi marchiare dalla luce che la raggiunge: più bassa è questa inerzia, maggiore sarà la sua sensibilità, ossia la "rapidità" con cui, a parità di luce, quella certa emulsione comincerà a scurirsi rispetto a un'altra meno sensibile.
Una volta definita la sensibilità della pellicola, della cui "misura" tratteremo più avanti, avremo che ad ogni immagine corrisponderà "un valore di esposizione" (EV) ben definito.
Per fare in modo che questo EV sia rispettato quando scattiamo la foto, giocheremo sia sul diaframma (misurato in F) sia sul tempo di esposizione (misurato - generalmente - in frazioni di secondo).
Consideriamo l'immagine sottostante, sulla quale abbiamo indicato con una X il valore di esposizione di una immagine per una determinata pellicola.


Le tre frecce con colori diversi indicano tre possibili modi di impressionare la pellicola, giocando sulla combinazione di tempi e diaframmi secondo una scala che, ad ogni cambio di valore (per esempio) dei primi, raddoppia o dimezza la quantità di luce che arriva alla pellicola rendendo necessario, ripettivamente il dimezzare o il raddoppiare dei tempi di esposizione. In questo modo si hanno coppie tempo/diaframmi equivalenti.


Traducendo in numeri, se l'esposimetro di bordo imposta una coppia T/D di 1/125 di secondo a F 5.6, è possibile ottenere il medesimo EV (valore di esposizione) anche dimezzando il tempo ma raddoppiando l'apertura di diaframma; pertanto con quella medesima pellicola e quella identica situazione di luce di cui sopra, per la macchina fotografica e per l'emulsione fotosensibile al suo interno, non fa alcuna differenza se si usa una coppia tempo/diaframma di 1/250 a F 4, al posto di quella sopra. E, sempre in termini di quantità di luce, lo stesso si può dire usando un'altra coppia T/D, quale, per esempio, 1/500 a F2.8; o anche 1/60 a F8. L'elenco potrebbe continuare, ma fondamentalmente sono tutti valori esposimetrici equivalenti: se avessimo davanti a noi la bottiglia della metafora di apertura, si noterebbe che verrebbe riempita sempre allo stesso livello, senza tracimare.
Per facilitare le cose, nelle vecchie reflex automatiche, generalmente dette "a priorità di diaframma", spettava al fotografo scegliere l'apertura del diaframma e lasciare che la macchina impostasse automaticamente il tempo di otturazione, tenendo conto, come sempre, innanzitutto della scelta del fotografo, ma anche della luce riflessa dal soggetto inquadrato che arrivava all'esposimetro e, ovviamente, della sensibilità della pellicola utilizzata.


2. Ma da dove viene il numero che designa un certo diaframma?
Abbiamo appena detto, "calandolo dall'alto", che un diaframma di F 8 lascia passare il doppio della luce del diaframma F 11, ossia del valore che si trova immediatamente dopo su ogni scala standard; mentre lascia passare la metà della luce del valore F 5.6, quello immediatamente prima, sempre su una scala standard. Anche senza essere geni in matematica, sembrerebbe che qualcosa non torni. In realtà tutto torna, poiché questi valori rappresentano l'apertura "relativa" del diaframma, ed esprimono il rapporto fra la lunghezza focale dell'obiettivo e il diametro del foro del diaframma. Trattandosi di un quoziente, si spiega anche per quale motivo questi valori 'sembrano' inversamente proporzionali alla quantità di luce che lasciano passare; in realtà è perfettamente logico: se la lunghezza focale è, poniamo 50 mm, passerà più luce se il foro del diaframma sarà aperto al massimo, creando - poniamo - un'apertura circolare di 25 mm. Infatti 50 diviso 25 uguale F 2. Mentre se il diaframma è più chiuso, creerà un foro più piccolo, per esempio di 9 mm e in questo caso il valore F sarà pari a circa 5,6 e passerà circa un ottavo della luce rispetto a F 2. Si tratta, beninteso, solo di qualche semplice esempio: nella realtà, questi valori sono arrotondati per rispettare alcuni standard; qui premeva semplicemente illustrare il principio su cui si basa il tutto.
Da un punto di vista meccanico, il diaframma è costituito da un certo numero di lamelle disposte in modo tale da formare una figura geometrica che, per approssimazione, si avvicina a quella di una circonferenza; maggiore il numero di lamelle, migliore l'approssimazione e - di conseguenza - la resa ottica dell'obiettivo, con minori cadute di luce ai bordi. Purtroppo nel S/8 la stragrande maggioranza dei modelli presenta diaframmi formati da due sole lamelle sagomate in modo tale da ricordare una sorta di "V" orizzontale e sovrapposte l'una all'altra: il loro scorrimento reciproco crea la variazione del foro di passaggio della luce, foro che, però, è ben lungi dall'avere una forma circolare. Macchine più raffinate presentano diaframmi a 4 lamelle (per esempio quasi tutte le Nizo), mentre al top troviamo cineprese (non necessariamente con ottica intercambiabile) con diaframmi di ben 5-6 lamelle, cosa che migliora anche la resa alle diverse focali, rendendola più uniforme, specie per quanto concerne l'abbassamento delle aberrazioni cromatiche.

3. La sensibilità della pellicola: valori e scale
Esistono due diverse scale utlizzate per designare le varie sensibilità: sia gli Stati Uniti, sia la Germania proposero in tempi che ormai vanno collocati nell'archeologia della tecnica fotografica, le rispettive scale, ossia quella della American Standard Association (ASA) e la cosiddetta Deutsche Industrie Norm (abbreviata in DIN). La prima, con una numerazione apparentemente 'arbitraria', è anche apparentemente più semplice perché, a un raddoppio del valore nominale, corrisponde un raddoppio della sensibilità: così, per esempio, una pellicola da 200 ASA è due volte più sensibile di una da 100 ASA. Nel sistema DIN, il valore numerico attribuito in "gradi", scaturisce (come nel caso degli ASA anche se in questo caso è meno lampante) da un'analisi sensitometrica che si effettua su una data pellicola dopo lo sviluppo di immagini fotografate per esposizioni (cioè con densità) crescenti: l'analisi può essere illustrata con un grafico cartesiano a forma di curva ed è per questo motivo che entrano in gioco i "logaritmi"; questi sono espressi in gradi, per cui, in base ad analisi di laboratorio, si stabilì, a suo tempo, che una pellicola che produce determinati annerimenti in determinate circostanze corrisponde, per esempio, a 21° DIN (equivalente a 100 ASA), mentre il suo doppio si ha aumentando il valore di tre unità (scala logaritimica), per cui 24° DIN sono il doppio di 21°, così come 17 DIN (=40 ASA) sono la metà di 20° DIN (=80 ASA).
Una trentina d'anni fa la ISO, (acronimo di "International Standardization Organization"), l'ente che, per esempio, decide la larghezza del vano dell'autoradio sulla plancia dell'automobile o le dimensioni del foglio A4, tentò una sorta di rozza sintesi fra le due scale per cui ciò che in precedenza era stata una pellicola da 100 ASA o da 21° DIN, diventò una pellicola con sensibilità di "ISO 100/21°".
Col tempo divenne consuetudine leggere solo la prima parte della designazione per cui, praticamente, il risultato fu che invece di dire ASA 100, si finì col dire ISO 100, perdendo la parte in DIN; niente male come sintesi! E fu un peccato perché la scala DIN diventa molto comoda quando si deve ragionare in termini di piccole correzioni esposimetriche, dell'ordine di terzi di diaframma: infatti, se per raddoppiare la sensibilità si deve avanzare di tre valori di scala, è chiaro che aumentandolo solo di uno, aumenterò la sensibilità di solo un terzo di diaframma; due valori DIN saranno, invece, un incremento di due terzi di diaframma.
Spesso, quando si parla di variazioni di coppia T/D rispetto alla lettura data dall'esposimetro, si adopera anche il termine "stop": ad una variazione di uno stop corrisponderà una variazione sul tempo (o sul diaframma) tale da fare arrivare la metà di luce (o il doppio, a secondo che la variazione sia verso la sottoesposizione o verso la sovraesposizione) rispetto alla lettura dell'esposimetro.
Esempio pratico: sto filmando sulla Ekta 100 D, con una macchina molto versatile (e manuale!!!) come la Leicina Special, della quale una fra le cose più apprezzabili è proprio il bellissimo selettore per impostare la sensibilità: se voglio evitare di avere colori troppo saturi, posso costringere l'esposimetro di bordo a lavorare con una sovraesposizione costante di 1/3 di diaframma; come?! Forse agendo in manuale sulla ghiera dei diaframmi dopo che la macchina mi ha comunicato il suo valore? Certo che no; basta impostare con quel selettore, una sensibilità leggermente più bassa di 21 DIN, che cioè introduca una sovraesposizione costante di un terzo di stop. Qual è questo valore? Se dovessi determinarlo in ASA ci vorrebbe una calcolatrice; coi DIN, basta scendere di un valore di scala, ossia impostare 20 invece di 21; viceversa se desidero immagini più dense e colori più saturi, devo sottoesporre di un terzo di stop, e allora imposterò il valore DIN pari a 22 invece di 21. Più semplice di così….

Per completezza, esplodiamo la scala ASA e DIN facendo corrispondere i singoli valori e notando che le due scale si intersecano al valore 12 (molto utile da tenere a mente quando si devono calcolare le sensibilità effettive della pellicola adoperando i filtri).

4. Latitudine di posa e trattamenti di sviluppo particolari
Dalla descrizione di come si calcolano i DIN, e del loro significato intrinseco, si può forse inferire che in realtà non è dato per scontato che una pellicola nasca già con una sensibilità precisa in mente al tecnico che la progetta: almeno in linea teorica, è possibile che la sua sensibilità venga determinata a posteriori, cioè effettuando quelle analisi sensitometriche di cui si è detto, e vedendo con quali diaframmi in fase di ripresa/scatto, la pellicola in questione ha fornito i risultati migliori; è ipotizzabile che qualcosa del genere sia accaduto soprattutto agli albori dell'era fotografica, ma da ciò può derivare un corollario valido ancora oggi, ossia che la sensibilità nominale (il valore stampato sulla scatola) non va preso alla lettera, anche perché il 95% degli scatti viene effettuato con soggetti che presentano vari gradi di chiaro e di scuro, cioè parti di scena che certamente sono illuminate di più o di meno rispetto alla lettura media che un esposimetro è in grado di fare. Insomma quasi sempre, anche quando il soggetto principale di una foto è correttamente esposto, ci sarà una quantità di elementi di contorno che risulteranno più o meno leggermente sovra/sottoesposti. Il grado di accettabilità negli esiti fotografici determinati da questo eccesso/carenza di luce, viene detto "latitudine di posa" (LdP): quando è ampia, anche una diaframmatura in eccesso o in difetto di almeno due stop produce immagini ancora accettabili; se invece la LdP è limitata, basterà poco per rendere i dettagli in luce o in penombra non più discernibili: si avranno, in questo caso, neri profondi e spenti, e bianchi sfondati, ossia gli esiti tipici delle pellicole invertibili, quelle che forniscono un'immagine positiva al termine dello sviluppo, pronta da proiettare senza procedimenti di stampa, e che sono la norma da sempre nel S/8. Per completezza, va detto che, per quanto limitata, la LdP delle invertibili attuali è quasi sempre superiore a quella della maggioranza degli odierni apparati digitali, i cui CCD difficilmente riescono a gestire uno scarto superiore di 1.5 stop di sovraesposizione.

Diverso il discorso per quanto riguarda le pellicole negative: in queste la LdP può arrivare anche a 5 stop di tolleranza o più, sia in eccesso che in difetto, specialmente con le emulsioni più recenti. Più precisamente, le negative sopportano un po' meglio le sovraesposizioni rispetto alle sottoesposizioni; esattamente il contrario del comportamento delle invertibili: infatti se con queste si deve accettare qualche compromesso di natura esposimetrica, è sempre meglio "privilegiare" le alteluci (le zone più chiare dell'immagine) chiudendo il diaframma un po' di più: l'alto contrasto che è loro connaturato, aiuterà a discernere ancora qualcosa nelle zone meno illuminate dell'inquadratura (basseluci). Viceversa privilegiando le basseluci, si rischierà quasi inevitabilmente di "sfondare" le parti più chiare. La compensazione automatica per il controluce (backlight) presente su molte cineprese, sfrutta questa caratteristica. Questo discorso, comunque, va limitato a circa 1,5 - 2 stop al massimo per le invertibili.

Da queste premesse, muove la possibilità di esporre una data pellicola a una sensibilità diversa rispetto a quella nominale, compensando poi in fase di sviluppo. Per esempio si puo ricorrere a uno sviluppo di tipo "forzato" (push process) quando si è sottoesposto il film in fase di ripresa. La motivazione per fare una cosa del genere può essere tanto di tipo creativo, quanto dettata da necessità contingenti, se ho portato con me pellicola di sensibilità troppo bassa in relazione all'ambiente in cui devo filmare.
Generalmente uno sviluppo forzato consiste in un allungamento proporzionale del tempo di trattamento del primo sviluppo: se un film di sensibilità "X" deve essere mantenuto in quel bagno per "x" secondi, il tempo dovrà essere raddoppiato se il film è stato sottoesposto di uno stop, (ossia come se la sensibilità fosse stata considerata pari a ½ X) e via di seguito. L'entità di questa correzione va sempre indicata chiaramente sulla pellicola inviata al trattamento specificando "push process 1" nell'esempio di cui sopra, o "push process 2" se la pellicola è stata sottoesposta di ben due stop (cosa possibile anche nel S/8 con le B/N: una volta ho esposto la TRI-X come se fosse una 800 ASA, quindi con ben due stop in più e i risultati erano comunque interessanti).
Cosa ci si può aspettare da queste pratiche "non ortodosse"? Semplicemente un aumento della grana e del contrasto, tanto maggiori quanto più si "forza" la pellicola. Con certe emulsioni come la E64 esposta a 120 ASA veniva anche piuttosto bene: l'accresciuto contrasto le dava un certo carattere. In ogni caso è consigliabile fare vari esperimenti per conoscere bene la resa della pellicola con cui si lavora più frequentemente, anche perché il gusto personale gioca un ruolo molto importante in questa circostanza.
Comunque anche la Ekta 100 D può essere esposta a 200. Chiaramente quando si decide in questo senso è necessario che l'intero caricatore sia esposto in questo modo. Per farlo, si può "manomettere" la tacca sensitometrica del caricatore: in questo modo la cinepresa esporrà automaticamente tutta la pellicola al valore che desideriamo; oppure si può compensare manualmente ogni inquadratura chiudendo di uno stop ogni valore suggerito dall'esposimentro. Con le Beaulieu e le Leicina la cosa è decisamente più semplice: basta impostare il valore che vogliamo sul selettore esterno. Inoltre non va sottovalutata, per quest'uso, una rotellina presente su alcune macchine di alta fascia (pur tutte automatiche), come - fra le altre - molte Nizo sonore (4080, 6056, 6080 ecc.) e le Canon 814/1014 XL-S; queste cineprese possiedono, sul lato destro, accanto al coperchio del vano caricatore, una rotellina che permette di introdurre una sovra/sottoesposizione costante di 1 diaframma, a scatti di terzi di diaframma. Con questo controllo, posso girare un'intera E100 D sottoesponendola di 1 diaframma per tutta la sua lunghezza: in pratica sarà esattamente come se l'avessi esposta a 200 ASA, il che è perfetto se intendo chiedere uno sviluppo forzato.

E' anche possibile la pratica inversa, ossia sovraesporre in ripresa (anche qui di uno o più stop) e accorciare proporzionalmente lo sviluppo. In questo caso si abbassa la sensibilità effettiva della pellicola, ma non aspettatevi di guadagnare molto in fatto di finezza di grana; più che altro ci sarà un abbassamento del contrasto, cosa che può tornare utile se si prevede di dover stampare o trasferire in video il filmato (queste operazioni ottico/elettroniche introducono sempre un aumento di contrasto).

Va notato, infine, che questo tipo di trattamenti "starati" generalmente richiedono un costo aggiuntivo, poiché data la natura delle correzioni, è necessario, usando una sviluppatrice a ciclo continuo, trattare queste pellicole separatamente.


5. In che modo la scelta della coppia T/D al posto di un'altra può essere importante?
A questo punto facciamo un passo indietro e torniamo a parlare di coppie T/D. Abbiamo visto che per la cellula dell'esposimetro di bordo, una coppia vale l'altra, fintanto che si tratti di coppie equivalenti: infatti, soddisfatta questa condizione, esse garantiranno un grado equivalente nell'annerimento delle parti luminose. Ma è chiaro che un diaframma invece che un altro e un tempo di otturazione (ma sarebbe meglio dire di esposizione) invece che un altro, possono fare davvero delle belle differenze sul piano estetico ed espressivo; infatti diaframmi aperti rendono sfocato lo sfondo perché riducono la Profondità di Campo (cfr articolo al riguardo, presente ne "La soffitta"), mentre se sono chiusi, la fanno aumentare. Tempi di esposizione molto brevi permettono di fermare l'attimo: è così che si ottengono quelle immagini in cui è possibile contare le gocce d'acqua degli spruzzi di una fontana, oppure quelle in cui un atleta in rapido movimento sembra talmente fermo che è possibile discernere le fibre dell'abbigliamento che indossa (all'estremo opposto, è possibile ottenere immagini molto mosse, che danno un'idea di "dinamismo" anche se si tratta di foto statiche). Vediamo, adesso, in che modo tutto questo si applica alla "fotografia in movimento" e, segnatamente, al super 8.

Nel cinema normalmente l'otturatore è un disco rotante solidale alla camma che fa muovere la griffa di trascinamento della pellicola. Il tempo di esposizione, nella stragrande maggioranza dei casi (quasi sempre nel S/8), è fisso ed è dato dall'ampiezza del settore aperto del disco otturatore: maggiore la sua ampiezza, più lungo il tempo di esposizione durante il quale ciascun fotogramma riceve luce dall'obiettivo; normalmente questo tempo è fra 1/40 e 1/50 di secondo. Pertanto le possibilità creative a cui si accennava sopra, sono molto limitate e circoscritte al modo in cui si adopera il diaframma: se voglio usare diaframmi molto chiusi per avere buona PdC, non è possibile aumentare il tempo di esposizione, come farei con una reflex: devo ricorrere, in prima battuta a più luce e/o a una pellicola più sensibile. Se invece voglio minor PdC devo usare meno luce e/o una pellicola meno sensibile e/o filtri grigi. Ci sarebbero altri parametri, ma per questi si rimanda all'articolo sulla PdC.
Esiste, tuttavia, un numero molto ridotto di cineprese S/8 dotate di otturatore variabile; nella maggior parte dei casi, questa caratteristica serve essenzialmente a ottenere dissolvenze di vario tipo senza dover agire sul diaframma; ma in alcune di queste, come le Beaulieu della serie ZM e la Canon 1014 E, si può impostare un certo tempo di otturazione, anche molto breve, per avere effetti dinamici particolari: una sequenza filmata con tempi di esposizione più brevi di 1/100 di secondo, crea un forte effetto "strobo", perché ciascun fotogramma porta impresso il movimento avvenuto sulla scena per un tempo più breve del normale e, di conseguenza, aumenta lo "staccato", la "distanza dinamica" che separa ciascun fotogramma da quelli precedenti/seguenti impedendo, in proiezione, che ciascun fotogramma si "fonda" con quelli adiacenti per creare un continuum (relativamente) fluido. Panoramiche e movimenti rapidi assumono una caratteristica simile a quella di un disegno animato perché ciascun fotogramma è più netto rispetto ai risultati che si ottengono con un tempo di esposizione standard. Immagini "filate" a parte, se si vuole avere un'idea più precisa di quanto descritto, si veda la sequenza dello sbarco in Normandia del film Salvate il soldato Ryan (USA 1993, di S. Spielberg); dietro quella sensazione quasi di vertigine, specie nelle immagini più crude con macchina a spalla, c'è proprio l'uso di un tempo di otturazione molto breve, unito (ma questo è del tutto secondario) a una lieve de-sincronizzazione fra griffa e otturatore che ha reso possibile quei bianchi del cielo e delle parti chiare che "sbavano" sulle parti più scure (per inciso, quest'ultimo effetto non è assolutamente ottenibile col S/8 se non modificando una cinepresa in un modo tale da renderla inutile per ogni altro uso).

Comunque anche nelle cineprese con apertura fissa dell'otturatore, ci si può preoccupare del tempo di esposizione allorquando si voglia filmare con cadenze di ripresa diverse dallo standard (che, per quanto ci riguarda, è 24 fps): infatti occorre sapere che se si filma a 72 fps per ottenere un effetto di rallentamento in proiezione, il tempo di esposizione sarà molto più breve del solito. Poiché 72 fps è tre volte 24, se a questa velocità il tempo è solitamente pari a 1/50 di secondo, a 72 sarà pari a 1/150 di secondo. Per avere un'esposizione equivalente a quella che si avrebbe filmando la medesima inquadratura a 24 fps, occorrerà aprire il diaframma di uno stop e mezzo. E se c'è luce sufficiente, questo non sarà un problema, altrimenti converrà usare una pellicola più sensibile. In ogni caso la PdC potrebbe essere inferiore e anche questo può essere usato a fini creativi, specie se decido di filmare scene statiche a frequenze elevate.
Un'altra cosa a cui prestare attenzione sono le panoramiche, specialmente quelle orizzontali: se si filma una panoramica con un tempo di 1/96 circa (succede con la Beaulieu 6008 impostata per esposizioni "normal") il risultato sarà a scatti. Meglio allora, usare un tempo di otturazione più lungo, impostando il relativo controllo su "L.L." (=bassa luce): ciò fa lavorare la cinepresa con un tempo di esposizione molto più lungo e le panoramiche risultano più morbide.

6. Il colore e la temperatura cromatica
All'inizio dell'articolo, abbiamo detto che "per semplicità" avremmo trattato le pellicole in bianco e nero. Adesso inizieremo a parlare un po' del colore, che alla fine è quello con cui tutti noi siamo più pratici e che, statisticamente, ci interessa di più quando effettuiamo le nostre riprese.
Usando pellicola a colori, occorre tener presente che l'emulsione fotografica non distingue i colori così come fa l'occhio umano, ossia adattandosi e compensando per i vari tipi di luce in cui ci si può venire a trovare. Infatti finché non ci si interessa di fotografia, sembrerebbe che la luce di un neon non sia poi molto diversa da quella del sole se non per la diversa intensità. Magari ci si accorge che la luce di una candela è diversa da quella di un faretto alogeno, ma non si riesce a concettualizzarne il motivo oltre la solita cena a lume di candela.
Il tipo di bianco emesso dalla sorgente luminosa che stiamo considerando viene definito "Temperatura di colore" di quella tipologia di sorgente. Di conseguenza il neon avrà una sua temperatura di colore, il sole un'altra e così via. Questo valore è definito temperatura non a caso, infatti corrisponde alla temperatura assoluta a cui si deve riscaldare il corpo nero per emanare la luce che si sta studiando e, come tale, viene indicata dalla scala Kelvin. Attenzione, a differenza delle altre scale di temperatura, la Kelvin non riporta il "pallino" per indicare i gradi e si dirà semplicemente, ad esempio, 12000 Kelvin (abbreviati con K) e non 12000 gradi Kelvin, così come non si userà l'indicazione °K.
Da analisi spettrometriche si è stabilito che la luce diurna oscilla fra i circa 5.000 e i 9000 K, mentre i valori delle normali lampadine da casa stanno intorno ai 2000 (quelle a risparmio energetico intorno a 4000K).
Tutta questa situazione ha costretto i vari fabbricanti di pellicole a stabilire due grandi famiglie di emulsione colore: le pellicole per luce diurna o naturale (D=daylight) e le pellicole per luce artificiale (T= tungsten). Le prime sono "tarate" per una temperatura cromatica di 5.500K, mentre le seconde sono tarate a 3200K (tipo "B") e 3400K (tipo "A", come il vecchio Kodachrome40).
In pratica, un oggetto bianco verrà impressionato sulla pellicola esattamente come bianco (e non rossiccio o bluastro) ogniqualvolta verrà illuminato da una luce che ha la stessa temperatura di colore di riferimento della pellicola.
Attenzione: per luce artificiale non si intendono le classiche lampadine, bensì appositi illuminatori alogeni in grado (col loro filamento al tungsteno), di produrre quella specifica temperatura cromatica: la ragione per cui molti film amatoriali del passsato sono spesso rossicci e scuri è perché vennero filmati con la luce sbagliata.
Mediante l'uso di filtri, detti di "conversione", è possibile adattare un'emulsione concepita per l'utilizzo in luce artificiale, all'utilizzo con luce diurna. Questi filtri, però, tendono ad assorbire attorno ad uno stop di luce (in genere 2/3 di stop per i filtri di conversione inseriti nelle cineprese) per cui è sempre preferibile usare una pellicola specifica per la luce in cui si deve filmare. I filtri di conversione vengono indicati nel programma Kodak secondo la designazione "Wratten", ormai universalmente accettata; i filtri n° 85 e 85B sono di color arancio e convertono le pellicole per luce artificiale (rispettivamente per i 3400K e i 3200K) alla luce del sole. Il filtro 80, invece, serve per l'esatto contrario. E' questo il filtro che si deve usare con la nuova Ektachrome 100 D quando vogliamo filmare in interni usando un faretto alogeno (beninteso, dopo aver escluso il filtro incorporato nella cinepresa). Questi filtri, purtroppo, assorbono una quantità di luce che varia da 1 ½ stop a 2 ½ stop.


7. La questione del filtro di conversione incorporato
Cercheremo, a questo punto, di chiarire perché per oltre 40 anni, lo standard colore del S/8 è stato di 3400K, cioè luce artificiale tipo A, per poi cambiare, a partire dal 2010, in luce diurna, cosa, come vedremo, meno vantaggiosa.
Infatti, come si è accennato, qualunque filtro di conversione ruba luce, riducendo la sensibilità effettiva: non a caso il vecchio K40 veniva esposto a 25 ASA, quando usato in luce diurna. E la da poco defunta E64 veniva esposta a 40 ASA, sempre in luce diurna. La "ratio" dietro tutto questo era che, per un dilettante, è molto meglio poter sfruttare appieno la sensibilità nominale della pellicola quando si opera in interni con (presumibilmente) una fonte di luce artificiale; mentre in esterni, sotto il sole, il fatto di dover perdere due terzi di diaframma per via del filtro, rappresentava il male minore.
Oggi però, le cose si sono invertite, per cui sotto il sole si ha fin troppa sensibilità e, con 100 ASA, è abbastanza frequente che si debba lavorare con diaframmi troppo chiusi, spesso anche ben oltre F 11 (quando il sole splende allo zenit), il che significa stare fuori da quel range all'interno del quale l'ottica riesce a dare il meglio di sé (fra circa F5.6 e F11); sarà consigliabile, a questo punto, ricorrere a filtri grigi a densità neutra (l'ND2 obbliga ad aprire l'obiettivo di uno stop, ma ce ne sono anche di più forti). Inoltre se si deve filmare in interni con un faretto alogeno, occorrerà utilizzare un filtro blu CC80 che assorbe, come accennato, circa due diaframmi, cioè molto più di quanto assorbiva l'85; in questa situazione, la sensibilità effettiva della Ekta 100 si riduce a soli 25 ASA, mantenendo la grana di una pur ottima 100. Ovvio che il filtro andrà avvitato sull'obiettivo, per cui sarà visibile nel mirino (a differenza di quello incorporato che, Beaulieu a parte, si trova a valle del prisma che invia l'immagine al mirino). Inoltre, d'ora in avanti, sarà bene abituarsi a interpretare i simboli presenti sulla cinepresa nel modo che segue: lampadina=filtro arancione disinserito (il settaggio da usare con al nuova 100 D); sole=filtro arancione inserito (da usare in luce diurna solo per terminare qualche vecchia emulsione per luce artificiale). Non escludo, anzi auspico, che qualche intraprendente tecnico esperto di cineprese, inventi un modo per sostituire il filtro interno con quello blu, necessario con le emulsioni attuali, in modo da restituire significato ai simboli di cui sopra e da evitare la scomodità di un filtro blu davanti all'obiettivo.
Va anche detto che diverse cineprese possiedono un sensore che permette il disinserimento automatico del filtro quando si usa la 100 D (o la Velvia), per esempio quasi tutte le Nizo e le Canon. Eccezioni eccellenti (fra le tante): Beaulieu, Bauer S715 XL, Leicina Special. Si tratta di un dentino che normalmente riposa in una tacca posta sulla flangia frontale del caricatore, nella parte bassa (v. foto più avanti); questa tacca, però, si trova(va) solo sui caricatori con pellicola per luce artificiale, nei nuovi è assente, per cui, nelle cineprese più dotate, il sensore viene azionato all'atto dell'inserimento della cartuccia e un sistema di levette interne provoca il disinserimento del filtro. La cosa vale anche per il B/N.


8. Il vano caricatore
La parte della cinepresa dove va inserita la cartuccia di pellicola, può essere piuttosto interessante per l'eventuale presenza di organi vari che permettono alla cinepresa di venire informata sul tipo di pellicola presente nel caricatore. Le foto che seguono mostrano questo alloggiamento di tre diverse cineprese, per consenitire al lettore di individuarne similitudini e differenze. Per tutte, vale la seguente legenda e l'avvertimento, quando la definizione è in corsivo, che quel certo elemento è sempre presente:
1 - microcontatti (uno o più) per la lettura della sensibilità della pellicola; questi microswitch vengono azionati dalla tacca presente sul caricatore: maggiore l'ampiezza della tacca, più alto il numero di contatti che non viene azionato, maggiore la sensibilità rilevata. Ovviamente più sono numerosi questi contatti, più versatile sarà la cinepresa. Nei modelli di fascia bassa, è presente un solo microswitch: in questo caso la cinepresa è in grado di gestire due sole sensibilità (conformi alle pellicole disponibili all'epoca): 25 e 100 ASA (con filtro inserito) o 40 e 160 ASA (con filtro escluso). Abbastanza incomprensibile la scelta della Bauer di dotare la sua ammiraglia S 715 di un corredo, per quanto riguarda questo aspetto, degno di una cinepresa giocattolo o comunque entry-level. In alcuni modelli, specie i meno recenti, la batteria di contatti può essere costituita da un piccolo sensore meccanico a slitta che agisce su una resistenza variabile: si tratta della soluzione migliore poiché permette di adattarsi a molte diverse sensibilità, senza le complicazioni connesse all'adozione di un circuito elettronico multiplo (come è necessariamente quello dotato di vari contatti).
2 - perno di allineamento: serve ad agevolare il corretto inserimento della cartuccia.
3 - guidapellicola (gate in inglese) completo di quadruccio di ripresa e griffa di trascinamento: è una delle parti più importanti di ogni cinepresa: va ad incastrarsi automaticamente nel pressore presente nell'apposita finestrella del caricatore e permette il corretto trascinamento della pellicola. Può essere di metallo o di plastica, brunito o argentato: dalla sua precisione costruttiva dipende, in parte, la qualità dell'immagine filmata.
4 - perno per l'inserimento del contametri che, normalmente non attivo senza caricatore, si azzera appena questo viene estratto.
5 - sensore per la rilevazione della tacca del filtro: in presenza dell'apposita tacca, questo sensore resta inattivo e la cinepresa rileva che si tratta di pellicola a colori per luce artificiale.
6 - nottolino di avvolgimento: si tratta di un perno azionato con una cremagliera dallo stesso motore della griffa; debitamente frizionato, consente l'avvolgimento della pellicola, con un numero di rotazioni che deve variare continuamente dall'inizio della cartuccia alla fine, poiché il diametro della "pizzetta" di film all'inizio è piccolo, ma cresce gradualmente per tutta la durata delle riprese. Ne consegue che il supporto su cui è montato quest'organo deve avere una certa capacità di slittamento ad evitare che possa forzare o "scippare" la pellicola alla griffa con esiti disastrosi per la stabilità di quadro.
7 - microswitch per l'attivazione dei circuiti sonori: veniva azionato solo dai caricatori sonori e, grazie a questo, veniva attivato il capstan di trascinamento sonoro (v.oltre).
8 - capstan: dotato di volano e azionato da un motore apposito, permettava, grazie anche alla pressione di un rullo gommato che qui non è visibile, di stabilizzare la velocità della pellicola eliminando il trascinamento a scatti indotto dalla griffa.
9 - testina di registrazione sonora.
Ovviamente gli organi degli ultimi tre punti si trovano solo sulle cineprese sonore

9. Mirino e sistema di traguardazione (attenzione agli esposimetri esterni!)
La maggior parte delle cineprese super 8 presenta un mirino di tipo reflex, anche se alcuni rari modelli (inclusi i primissimi esemplari prodotti dalla Kodak al momento del lancio del formato, nel 1965) hanno un mirino a visione diretta o "galileiano". Il solo vantaggio di questa soluzione è che l'immagine è leggermente più luminosa rispetto a quella di un mirino reflex e non ruba luce alla pellicola. Al di là di questo, un mirino non-reflex non dà alcun vantaggio, anzi: l'immagine impressionata sulla pellicola è leggermente diversa (come inquadratura) rispetto a quella che si vede nel mirino, poiché la finestrella di quest'ultimo ha un punto di vista che è molto vicino a quello dell'obiettivo, ma non è identico. Per cui filmando a distanze ravvicinate, si rischia di tagliare le teste o qualche altro elemento. Inoltre un mirino galileiano non consente di gestire in maniera semplice le variazioni di focale di un obiettivo zoom.
Per quanto riguarda i mirini reflex, due sono le soluzioni adottate dai costruttori di cineprese S/8: la più diffusa, e che le rende piuttosto diverse da una macchina fotografica reflex, è il prisma semiriflettente (beamsplitter): questo elemento ottico "ruba" una parte di luce destinata alla pellicola e la invia al sistema di traguardazione del mirino. L'entità di questo furto varia da cinepresa a cinepresa: per esempio nel caso della Leicina, la casa dichiara una perdita di luce di appena il 10%. Cineprese meno blasonate, possono "rubare" di più. Ma i furti non finiscono qui, perché anche la fotocellula dell'esposimetro (se è TTL - v. voce in fondo), richiede luce per effettuare la misurazione. Anche qui i vari costruttori hanno escogitato più di una soluzione: dal furto di luce aggiuntivo, il che vuol dire che ne arriva ancora di meno sulla pellicola), a un'ulteriore suddivisione della luce a valle del prisma del mirino (come nella Leicina, che quindi limita il tutto comunque al 10%, come appena visto), al sistema (il più elaborato) dell'otturatore rivestito di una vernice riflettente rivolta verso l'obiettivo, da cui la fotocellula legge la luce; quest'ultimo sistema, peculiare di alcune Nizo, è forse il miglior compromesso, poiché ruba poca luce alla pellicola ma anche alla visione reflex del mirino. Quindi, anche quando si parla di cineprese XL, c'è tipo e tipo e, a parità di (poca) luce, due diverse cineprese potrebbero dare risultati abbastanza diversi anche usando la medesima pellicola. Va inoltre detto che la presenza di alcuni tipi di specchi per l'esposimetro, può rendere deleterio l'uso di filtri polarizzatori (v. § successivo), in quanto possono interferire con la fotocellula, determinando una lettura sbagliata; in questo casi diventa d'obbligo l'uso di un polarizzatore circolare (ahimé, molto più costoso). Il vantaggio davvero importante di questo sistema, se la cinepresa presenta ottica fissa, è che il mirino lavora sempre alla massima luminosità, dato che il diaframma è posizionato dopo il prisma che invia la luce al mirino; quindi l'immagine è sempre molto chiara e relativamente facile da focheggiare, pur in assenza di un vero piano di messa a fuoco smerigliato. Infatti con questa tipologia di macchine, gli ausilii per questa operazione sono il classico telemetro a spezzatura di immagine (orizzontale o obliqua), la crocetta centrale di messa a fuoco aerea e il sistema di messa a fuoco dicroica (molto rara) in cui la sfocatura viene evidenziata da flange arancioni e bluastre attorno al soggetto, che spariscono quando è tutto OK.
L'altro sistema reflex, esclusivo della Beaulieu, è il sistema a specchio montato su un otturatore a ghigliottina: si tratta di una soluzione senz'altro molto più simile a quello di una macchina fotografica. In questo caso, infatti, durante la ripresa, la luce viene inviata alternativamente alla pellicola o al mirino, ma sempre nella misura del 100% e senza la frapposizione di (in questo caso) inutili prismi o altri elementi ottici.Va da sé che nel mirino l'immagine sfarfalla durante la ripresa e l'immagine è diaframmata, per cui per fare la messa a fuoco ci si deve ricordare di aprire il diaframma al massimo (per ridurre la PdC e facilitare l'operazione).

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A questo punto bisogna aggiungere che, per le ragioni esposte, non è sempre facile o raccomandabile servirsi di un esposimetro esterno per determinare la giusta apertura, poiché solo l'esposimetro di bordo può tenere in debita considerazione le variabili derivanti dall'architettura del sistema di traguardazione e le conseguenti cadute di luce. In generale, c'è una discrepanza media fra il valore di diaframma impostato in automatico e quello suggerito da un esposimetro esterno di circa uno stop in più, ossia la cinepresa tende ad "aprire" di più perché ci sono perdite di luce non previste dal costruttore dell'esposimetro. Per cui, se proprio lo si vuole usare, è indispensabile fare dei confronti fra le due letture, in modo da determinare con certezza quale sia lo scostamento. E senza dimenticare che in alcuni casi è possibile usare tutta la cinepresa come fosse un esposimetro di tipo "spot", semplicemente giocando con lo zoom e la funzione di blocco dell'esposizione, cioè isolando il dettaglio più rilevante del soggetto e misurando su questo il valore di diaframma da impostare. Una volta bloccatolo sulla scala, si riporta lo zoom alla composizione desiderata e si filma.

Quasi tutte le cineprese consentono la correzione diottrica dell'oculare del mirino, anche quelle di fascia media, in genere in una gamma di valori che va da -3 a +3 diottrie. Questo serve per fare in modo di poter appoggiare l'occhio al mirino senza gli occhiali, cosa che permette di vedere tutta l'immagine senza difficoltà. Allo stesso tempo, tutte le informazioni ivi visibili (telemetro, scala diaframmi, spie di vario tipo) non creano stress all'occhio dell'operatore, in quanto già focheggiate dalla regolazione diottrica. Ma per evitare che questa comodità diventi un'arma a doppio taglio quando si filma, è necessario regolare il sistema diottrico prima (e una volta per tutte) di fare il fuoco, altrimento si rischia che il girato sia sfocato. In genere si può procedere così: macchina su cavalletto, zoom al massimo tele, ghiera delle distanze su infinito e inquadratura su qualcosa di verticale ad almeno 30-40 m di distanza, per esempio un palo della luce; a questo punto si può agire sulla correzione diottrica fino a quando il palo appare senza "fratture" nel disco del telemetro.
Un altro metodo è quello di mettere la camera esattamente a una breve distanza da un soggetto verticale per esempio il bordo di un muro a 3 m netti, misurati con la fettuccia, la ghiera delle distanze sul valore corrispondente e lo zoom sempre al massimo. Quindi si agisce sulle diottrie fino a quando non si ottiene lo stesso risultato di cui sopra. A questo punto si può avere la certezza di lavorare con un certo comfort visivo e di avere immagini a fuoco, sempre che non ci sia qualche problema interno (da cui l'importanza di testare sempre una cinepresa appena acquistata).
Per chi non volesse complicarsi troppo la vita, è sempre possibile filmare a "fuoco fisso", se c'è abbastanza luce: basta mettere lo zoom sul valore di 15 mm e la ghiera delle distanze su un valore compreso intorno a 4-6 m; in genere questa combinazione è evidenziata col diverso colore con cui questi valori sono stampati sulle rispettive ghiere. Se si può diaframmare ad almeno F 5.6 (o con valori più chiusi), si può sfruttare una PdC che permette di avere tutto a fuoco da brevi distanze all'infinito; volendo si può anche zoomare verso il grandangolo (mentre è assolutamente sconsigliabile zoomare in zona "tele").

10. Alcune informazioni sui filtri
Nell'uso del S/8, come anche in fotografia, ci sono dei filtri che conviene sempre avere con sé, e in particolare, ce n'è uno che è buona norma lasciare sempre avvitato sull'obiettivo: il filtro UV o anche skylight che assorbe le radiazioni più fredde della luce solare, ma soprattutto protegge la lente frontale dell'obiettivo.

Altri filtri utili sono senz'altro un filtro ND 2, ossia un filtro grigio e uniforme, utile filmando in pieno sole con la nuova Ektachrome 100 D, che costringerebbe il diaframma a lavorare a valori troppo chiusi. Inoltre non va sottovalutato il polarizzatore (che nel caso delle S/8 è preferibile sia del tipo circolare, invece che lineare, a causa dei prismi presenti nel sistema ottico, ma ci sono eccezioni): esso è utile per eliminare o attenuare i riflessi dalle superfici non metalliche (è così che si ottengono quelle foto di barche che sembrano levitare piuttosto che galleggiare sull'acqua). L'effetto è massimo quando la sorgente di luce si trova a 90° di angolazione rispetto all'asse cinepresa-soggetto.

Se si usa il B/N, può tornare utile anche la classica terna di fitri dedicati: il giallo, il verde e il rosso; servono per controllare e variare il rapporto fra le sfumature di grigio in cui le emulsioni B/N "traducono" i vari colori, influenzando, in definitva, anche il contrasto. Nel loro uso si deve tener presente che il filtro schiarisce gli elementi della scena che hanno lo stesso (più o meno) colore del filtro stesso, mentre scurisce gli elementi di colore complementare. Pertanto, se si tiene in considerazione la foto 1, scattata senza filtri, si rileva che:


il filtro giallo (foto 2) scurisce il blu ed elimina il viola, mentre schiarisce i grigi relativi al giallo, verde, arancione e rosso. Utile, quindi, nella ripresa di paesaggi con una certa quantità di cielo e nuvole: queste spiccheranno maggiormente contro il cielo reso un po' più scuro dal filtro;

il filtro verde (foto 3) ha un effetto simile al giallo ma con la differenza che scurisce il cielo molto di più, oltre a scurire ciò che in natura è rosso; quindi può servire per far risaltare un fiore rispetto al gambo, o per dare un ché di drammatico a un ritratto, rendendo più visibili eventuali imperfezioni della pelle. Molto utile nelle riprese naturalistiche;

il filtro rosso (foto 4) è utile nella riprese di palazzi, poiché ne schiarisce le facciate e allo stesso tempo scurisce il cielo. Migliora il contrasto nelle foto a distanza di soggetti naturalistici.

Ovviamente si tratta di linee guida di massima, essendo impossibile prevedere in questa sede le infinite variabili delle situazioni che si possono presentare durante delle riprese. Comunque la regola aurea che va tenuta sempre a mente nella foto B/N è che il contrasto è dato solo dalle luci, (che si traducono in grigi), data l'assenza del colore; ne consegue che nella foto di soggetti con diversi colori ma di medesima luminosità, verranno fuori densità di grigi similari. Si parla, in questo caso, di scarsa separazione tonale. E' per questo motivo che spesso le immagini in B/N possono sembrare piatte e un po' scialbe, troppo neutre, insomma. I filtri per il B/N servono proprio a ovviare a questi problemi e vanno scelti dopo aver deciso quale parte della scena schiarire (=colore del filtro il più possibile simile) a scapito delle parti da scurire.


11. Un po' di sigle e definizioni (nel Super 8 e non solo)

AE lock: blocco dell'esposizione automatica; utile per rilevare la giusta esposizione di un particolare importante di una scena (magari con lo zoom al massimo), bloccare il diaframma su quel determinato valore suggerito dalla macchina e poi ricomporre l'inquadratura senza che vengano introdotte variazioni. Utile anche per evitare effetti di "pompaggio" a seguito di una repentina, momentanea e inaspettata variazione della luce della scena inquadrata, per esempio filmando in movimento da un'automobile che percorre una strada in mezzo a un bosco, con la luce del sole che filtra in maniera disomogenea fra i rami degli alberi.

Angolo di campo: valore espresso in gradi sessagesimali che esprime quanto del soggetto e di ciò che lo circonda può essere incluso nel fotogramma, in senso diagonale. Dipende dalla focale impiegata ed è inversamente proporzionale a questa: minore la focale, maggiore l'angolo di campo. I grandangolari più spinti nel S/8 arrivano a coprire un angolo intono a circa 80-82°, ma solo utilizzando aggiuntivi dedicati (Schneider UWL, Canon Wide Attachment e Eumig/Bolex PMA), che lavorano in campo macro e precludono la possibilità di zoomare. Sulle ottiche a focali variabili, il valore massimo che si riscontra è pari a 55° di copertura, che si raggiunge in presenza di una focale di 6 mm (non molto diffusa).

Backlight: automatismo per compensare il controluce. Inquadrando una persona ripresa mentre si staglia contro un cielo luminoso, è molto probabile che l'esposimetro di bordo si lasci ingannare dalla luce proveniente da dietro, impostando un diaframma che permetterà di vedere eventuali nubi, ma renderà il soggetto troppo scuro. In questo caso è opportuno aumentare l'apertura di almeno uno stop. Utile anche sulla neve e sulla sabbia (ma ricordarsi di disinserirlo subito dopo il suo utilizzo).

Base del film: v. "supporto".

Carrellata ottica: parente povero delle carrellate ottenute, nel cinema professionale, con la macchina che avanza su un supporto che si muove su binari. L'effetto può essere a "stringere" o ad "allargare": nel primo caso si passa da un valore dello zoom numericamente basso (=l'obiettivo abbraccia un campo ampio) e uno più alto (=l'obiettivo abbraccia un campo più stretto, isolando un dettaglio); viceversa nel secondo caso. Tra la carrellata ottica e il vero carrello del cinema professionale esiste una grande differenza: l'impressione di avvicinamento o di allontanamento della carrellata ottica è frutto rispettivamente di un ingrandimento o di una riduzione dell'immagine che avviene internamente all'obiettivo grazie a una variazione di un gruppo di lenti poste al centro del barilotto; di conseguenza vi è solo una variazione nelle dimensioni dei soggetti inquadrati, ma non della prospettiva e - quindi - dei rapporti fra dimensioni dei vari elementi. Non così nel carrello vero, poiché la macchina, spostandosi fisicamente verso o dal soggetto principale, fa variare anche le proporzioni relative fra i vari elementi; per esempio, avvicinando la camera al soggetto, un elemento intermedio posto fra questo e la MdP, sembrerà aumentare di dimensioni più rapidamente del soggetto principale, in quanto più vicino. Quindi con la carrellata ottica a "stringere" si tende ad appiattire la profondità della scena inquadrata, mentre il carrello vero tende ad esaltarla.

Direct Sound: designa quelle cineprese che accettano il caricatore sonoro (ormai fuori produzione dal 1997) e che sono in grado di registrare l'audio direttamente sulla pista magnetica presente su quel tipo di pellicola. Tutte queste cineprese possono accettare anche il caricatore muto.

EE: acronimo dell'inglese Electric Eye (occhio elettrico). Una definizione fantasiosa diventata in auge all'indomani dell'introduzione dell'esposimetro automatico incorporato nella cinepresa (o nella macchina fotografica). Generalmente nel S/8 l'esposimetro è sempre incorporato, l'esposizione è sempre automatica e, nei modelli di fascia media e alta, l'automatismo è disinseribile.

Fade in/out: sistema automatico per le dissolvenze in ingresso e in uscita (dette anche dissolvenze semplici). In genere l'automatismo blocca la macchina una volta che il diaframma o l'otturatore (se è di tipo variabile) hanno raggiunto la chiusura totale.

EE lock: v. AE lock.

Emulsione fotosensibile: (v. gelatina)

Gelatina: la parte della pellicola stesa sul supporto (v.) che viene impressionata durante le riprese.

Lap (dissolve): dissolvenza incrociata; consiste in una dissolvenza in chiusura e una in apertura perfettamente sovrapposte, previo riavvolgimento di quei circa 90 fotogrammi interessati dall'effetto. Poiché il caricatore S/8 non permette lo svolgimento al contrario della pellicola appena esposta (a causa di un sistema di ritegno interno che può essere escluso solo dal laboratorio di sviluppo prima di estrarre la pellicola dalla cartuccia), i progettisti escogitarono un espediente molto ingegnoso: la cinepresa blocca il nottolino di avvolgimento appena ha inizio la prima fase (chiusura) della dissolvenza incrociata; di conseguenza la pellicola, pur trascinata dalla griffa, non viene avvolta, ma resta lasca nella metà del caricatore che riceve la pellicola dopo l'esposizione. Appena terminata la prima operazione, la cinepresa si blocca (in automatico nei modelli più "recenti") e riavvolge l'esatta quantità di pellicola, grazie alla griffa che, muovendosi al contrario, respinge quei 90 fotogrammi nella parte "vergine" del caricatore. Quando il riavvolgimento è terminato, la cinepresa si ferma e si predispone per l'esecuzione della seconda parte dell'effetto, la dissolvenza in apertura.

Lenti addizionali: si tratta di lenti di gradazione variabile, espressa in diottrie (p. es. +1, +2 ecc.) che permettono di accorciare sensibilmente la distanza minima di messa a fuoco, anche (e specialmente) su obiettivi privi di possibilità "macro" (v.); lasciano immutate le possibilità di zoomata, ma hanno una profondità di campo (v.) molto ridotta e introducono aberrazioni cromatiche piuttosto fastidiose, specialmente a diaframmi estremi.

Lunghezza focale: valore espresso in mm che in origine denotava la distanza fra la lente frontale dell'obiettivo e il piano di scorrimento pellicola. Maggiore la distanza, più stretto l'angolo di campo (v.). Oggi questa definizione ha perso largamente di significato, poiché, grazie a una progettazione al computer delle lenti, si è riusciti a ottenere obiettivi di notevole lunghezza focale con un corpo molto più compatto che in passato. Comunque il dato numerico espresso quando si parla di un certo obiettivo serve ancora per capire subito se si tratta di un "normale", di un "grandangolo" o di un "tele", anche se queste definizioni hanno senso solo in rapporto al formato utilizzato: infatti un obiettivo con 10 mm di focale è un "normale" nel S/8, ma è già un discreto grandangolo nel formato 16mm.

Macro: termine che sta a indicare la capacità di un obiettivo di mettere a fuoco a una distanza inferiore rispetto a quella minima canonica di 1,5 m. Ciò si ottiene, in genere, lavorando all'estremo grandangolare delle focali (previo azionamento di una levetta o di una sottile ghiera aggiuntiva posta fra obiettivo e corpo macchina), ma rinunciando alla possibilità di zoomare, poiché per effettuare la messa a fuoco, si mette la ghiera delle distanze su "infinito" e si utilizza l'anello delle focali. Alcuni obiettivi permettono anche (o solo) la macro all'estremo opposto: fra queste vanno ricordate la Canon 1014/814 XL-S, la Bauer S 715 XL e gli Schneider Optivaron 6-66 mm montati su Leicina e Beaulieu; in questi casi l'uso dello zoom non viene compromesso (perlomeno ad alcune focali).

Numero F: numero che indica l'apertura relativa dell'obiettivo alle diverse impostazioni del diaframma.

Numero T: scala delle aperture dell'obiettivo che tiene conto della quantità di luce che va dispersa durante il passaggio fra le varie parti dell'obiettivo; rappresenta, quindi, il valore dell'effettiva trasmissione di luce alla pellicola.

Obiettivo: l'elemento ottico che focalizza le immagini sulla pellicola. A seconda della lunghezza focale (v.) può essere normale, grandangolare o tele. Nel super 8 è considerata normale una focale intorno ai 9-10 mm, mentre sono grandangolari tutte le focali di valore inferiore e sono tele tutte quelle di valore superiore. Gli obiettivi possono avere focale fissa (e quindi sono detti anche "primari" o "prime lenses" in inglese), o variabili e in questo caso sono detti "zoom".

Power zoom: escursione ottica dell'obiettivo a focale variabile, ottenuta grazie a un servomotore dedicato o, nei modelli meno pregiati, accoppiando degli ingranaggi al motorino di trascinamento pellicola. Curioso notare che il principio del tasto a bilanciere che governa la variazione focale in avvicinamento o in allontanamento, presente su praticamente tutti i modelli, ha lasciato una sorta di eredità anche nelle attuali videocamere, che presentano controlli molto simili, come principio, se non identici.

Profondità di campo: lo spazio avanti e dietro il soggetto principale ancora a fuoco rispetto alla distanza nominale camera-soggetto. Per una trattazione approfondita, si rimanda all'articolo specifico presente ne "La soffitta".

Single 8: sistema a passo ridotto proposto dalla Fuji, che presenta dimensioni analoghe (larghezza, passo ecc.) a quelle del S/8, ma diversa cartuccia. Il supporto (v.) è di poliestere e questo permise l'adozione di un caricatore molto compatto pur con i classici 15 m di pellicola.

Stop-down: tipo di misurazione esposimetrica "collaterale" alla lettura TTL (v.), ma poco usata nel S/8, dove prevale la lettura TTL a tutta apertura. Questo perché la luce inviata alla fotocellula esposimetrica, viene prelevata da un prisma che si trova a valle del prisma-mirino e del diaframma: di conseguenza l'apertura di quest'ultimo non è rilevabile nel mirino neppure durante la ripresa (ma non lo è neppure la PdC). Le uniche macchine che hanno lettura di tipo stop-down sono la Leicina e le Beaulieu, ossia tutte cineprese (non a caso) a ottica intercambiabile; in entrambi i casi, nel mirino è possibile vedere la luce trasmessa dal diaframma (quindi si può anche controllare visivamente la PdC). Per evitare che ciò possa interferire con l'operazione di messa a fuoco, sia la Beaulieu 6008 che la Leicina Special hanno un pulsante che istantaneamente apre il diaframma alla massima apertura e porta la focale al massimo valore disponibile.

Supporto: la parte della pellicola su cui è stesa l'emulsione fotosensibile (detta anche gelatina, v.); generalmente nel Super 8 il materiale di cui è costituito il supporto è il triacetato di celluloide che può essere giuntato in fase di montaggio sia con un liquido solvente a base di acetone, sia a secco con del nastro adesivo apposito (da perforare o preperforato; ma comunque con caratteristiche tali da non rilasciare sostanze collose neppure in caso di conservazione in ambiente con forte umidità). Nel "Single 8" (v.) il supporto è costituito da poliestere, più tenace e resistente del triacetato, che, però, può essere giuntato solo con nastro adesivo. L'applicazione della pista sonora magnetica (operazione detta "pistaggio") può essere fatta in casa con un'apposita pistatrice nel caso delle pellicole con base in triacetato, mentre per quelle in poliestere occorre rivolgersi a pochissimi centri specializzati, essendo operazione più complessa e delicata (anche da un punto di vista chimico).

Telemetro: sistema per la misurazione della distanza cinepresa-soggetto, generalmente a spezzatura di immagine orizzontale od obliqua. Ne esiste una variante proposta da Chinon e Sankyo in alcuni modelli di penultima generazione, detta di tipo "dicroico", in cui il soggetto viene circondato da aloni blu-arancio quando non è a fuoco.

Time lapse: ripresa a fotogramma singolo mediante temporizzatore, generalmente incorporato. Permette la ripresa di eventi che nella realtà si svolgono molto lentamente, facendo sì che appaiano estremamente veloci durante la proiezione.

TTL: acronimo dell'inglese Through-the-Lens (attraverso l'obiettivo). Sta a indicare la caratteristica di leggere la quantità di luce riflessa dal soggetto misurandola attraverso lo stesso obiettivo che cattura l'immagine e non, come accadeva in precedenza, mediante una cellula esterna, che, nonostante sia molto vicina all'obiettivo, introduce sempre il rischio che il campo abbracciato da essa, sia leggermente diverso da quello inquadrato (specie in presenza di zoom con escursione focale superiore a 3x). Nelle super 8 la lettura esposimetrica è quasi sempre di questo tipo, con alcune eccezioni eccellenti, come la Canon 310 XL (nota: il sito "museale" della Canon sotto questo aspetto si contraddice).

XL: sigla che sta per eXisting Light (luce ambiente). Designa quelle cineprese che presentano un otturatore (generalmente di ampiezza fissa), con settore aperto maggiorato. Con un'ampiezza di almeno 200°, il tempo di otturazione pro-fotogramma diventa leggermente più lungo, rispetto a una cinepresa con otturatore dal settore aperto di soli 150-160°. Le cineprese più spinte in tal senso arrivano a un settore aperto di circa 220-225°; con l'aggiunta di un'ottica con apertura 1.2 o maggiore e di una pellicola ad alta sensibilità (come poteva essere la vecchia Ektachrome 160), si poteva tentare di fare riprese in condizioni quasi proibitive, ma tenendo presente che il tutto era poco più che un'abile trovata commerciale.


Zoom: v. carrellata ottica e obiettivo.



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